Una produzione eclettica che si basa però su una certezza: una qualità costante delle birre proposte, anno dopo anno.
A metà anni Novanta i microbirrifici in Italia si contavano (letteralmente) sulle dita di una mano. Certo il nostro Paese non difettava di grande tradizione brassicola, ma il fenomeno si era interrotto quasi del tutto nel Dopoguerra lasciando il campo esclusivamente ai prodotti industriali. Nonostante questo, continuava ad esistere uno zoccolo duro di appassionati che spegneva la sua sete andando a scovare le craft beer all’estero e, in alcuni casi, producendole da sé. Homebrewer, diremmo oggi, o per utilizzare un lessico più puntuale, domozimurghi. Emanuele Longo è proprio uno di loro, un professore di educazione fisica, domozimurgo per passione, che alla fine del millennio comincia le prime sperimentazioni e le sottopone a un pubblico prima di amici poi professionale, nei concorsi che timidamente appaiono nel panorama nazionale. Così ha modo di confrontarsi con altri appassionati e iniziare a progettare un proprio birrificio. Un sogno che si concretizza con l’incontro di un socio, Fulvio Nessi, che invece di professione fa l’imprenditore. Il sogno casalingo si concretizza in anni di test, studio e la costruzione di un solido progetto imprenditoriale fino ad arrivare nel 2008 quando il Birrificio Lariano nasce ufficialmente. Un decennio o poco più di distanza dai primi tentativi, un periodo che però ha visto il mondo della birra cambiare radicalmente. I microbirrifici nel frattempo si sono moltiplicati, l’Italia è invasa da tendenze destinate a durare o scomparire nell’arco di una spillatura.
L’idea di Emanuele & co. però resta la stessa: una questione di stile. “Fin dall’inizio – spiega Emanuele – avevamo chiara una cosa: chi sceglieva la nostra birra doveva avere la garanzia di trovare un prodotto con caratteristiche facilmente identificabili, una qualità stabile nel tempo. Dovevamo essere riconoscibili”. E lo fanno in molti modi a partire dal vestito, quell’etichetta che ancora oggi li contraddistingue in maniera netta: “L’idea delle etichette con gli animali stilizzati è nata dall’incontro con un nostro cliente di vecchia data e grafico. Volevamo qualcosa di colorato, attrattivo e facile da individuare soprattutto per una clientela non esperta che magari fatica a ricordare nomi di birre (e di birrifici. Ndr) ma “ha ben chiaro se ha bevuto la birra con il gatto, con il bufalo o con il pellicano”. Così l’ironia, il colore, diventa presto marchio di fabbrica che non sarà più abbandonato. Una questione di stile, ancora una volta.
“La prima birra che abbiamo prodotto e che ancora oggi rappresenta la nostra bandiera è la Grigna, una pils a bassa fermentazione che negli anni ha accumulato riconoscimenti di alto livello e che tuttora identifica una filosofia. Uno stile: naso pulito, con un bel bouquet floreale, erbaceo e un ricco aroma di malto”. La Grigna è la birra delle origini, il pilastro intorno a cui è cresciuto il birrificio, solida come la montagna che evoca nel nome (Grigna infatti è proprio la montagna che svetta sul lecchese e che he rappresenta il classico skyline). Poi man mano arrivano le altre: la Ciube, una double IPA ottenuta grazie a una luppolatura americana in dry hopping, che si traduce in un bicchiere con fruttato tropicale, corpo leggero e amaro importante; l’American Hype che come suggerisce il nome è un’American IPA ad alta fermentazione prodotta con luppoli americani che donano sentori agrumati,morbida ma con una nota amara pronunciata; la Falesia (falesia è la roccia di montagna) che è una bock a bassa fermentazione con naso quasi dolce di caramello e un forte aroma di malto. A queste si sono aggiunte referenze come la Porter Madiba, la Session IPA New Age, la White IPA Vergött, che sono tutte salite sul podio del premio Birra dell’anno 2023, nelle rispettive categorie.
Una qualità, quindi, che si è mantenuta costante negli anni: “Il tratto che più ci caratterizza – spiega Emanuele – è proprio la continuità nel livello delle nostre etichette anche a fronte di un prodotto agricolo che è condizionato dalle annate e dai raccolti. Noi puntiamo sempre ad avere un prodotto stabile nel tempo e immediatamente identificabile”. Lo stile, ancora una volta, inteso come vera e propria identità del birrificio.
E allora come fare a differenziarsi? “Con le birre one shot, con prodotti che rappresentano un modo per mantenere viva l’attenzione dei nostri clienti più appassionati e per far parlare di noi in un panorama brassicolo sempre più ricco”. Birre che non cercano facili sensazionalismi, ma che sono anche queste frutto di un progetto dotato di una certa continuità. E’ il caso, classico in questo periodo, delle birre di Natale che cambiano anno dopo anno: “All’inizio facevamo una birra con fichi e cannella, lo scorso anno abbiamo proposto una imperial stout con aggiunta di caffè cacao e rum che attraverso l’impiego dei legni vuol richiamare il mondo degli spirits”. O ancora quello delle birre alla frutta barricate: “Abbiamo cercato di sfruttare al massimo quello che la frutta poteva dare – spiega – con un processo di produzione che prevede la tipica fermentazione nel tank poi il trasferimento nelle botti con l’aggiunta di frutta che, oltre a dare i sentori, ha i batteri lattici che ci consentono di sviluppare quella acidità non aggressiva ma comunque presente che ci permette di mantenere vivo e graffiante un prodotto che grazie all’invecchiamento porta in dote una certa ossidazione”. Ultima nata nella seria è la Rata Beer, presentata a settembre. Si tratta di una birra in stile belga con aggiunta di succo di amarene per richiamare il Ratafià, liquore a base vino con amarena e cannella: “In questo caso abbiamo idealmente sostituito il vino con la birra, rinunciando alla speziatura per non caricare troppo la bevuta”. Il risultato è ancora una volta una birra dai sentori invitanti, il naso pulito, la giusta freschezza. Insomma perfettamente adatta a uno stile ben definito che, però, non annoia mai.